giovedì 27 dicembre 2012

Peripezie e gioie di cinque piccoli indiani.



Una terrazza, una speciale palla di carta, tre piccoli indiani su cinque: ecco gli ingredienti per il calcio a tre, sport di nostra invenzione. Funzionava così: si prendevano una decina di fogli di giornale, si arrotolavano uno sopra l’altro sino a trasformarli in una palla, si coprivano con una busta di plastica. Un nodo fatto con i manici del sacchetto serviva a rendere la sfera più robusta e consistente. Massimo, il più piccolo degli indiani maschi, era il portiere designato, a me ed Erminio, invece, toccava inventare gli schemi da utilizzare, quando in compagnia di Salvo, che abitava nella casa di fronte, sfidavamo con un pallone vero gli altri ragazzi del quartiere. Era un lavoro serio: nell’inventare schemi ed azioni di gioco, mettevamo la stessa passione di Nereo Rocco o di Nils Liedholm, gli allenatori di calcio che più ammiravamo in quel periodo. La terrazza era grande quanto l’intero appartamento: quaranta metri quadri. Gli errori di mira erano favoriti dalla speciale composizione della palla di carta: non era raro, dunque, vederla volare oltre i confini della terrazza. Quando superava le ringhiere a sinistra finiva per strada: per fortuna, però, non abbiamo colpito mai in testa nessuno, né beccato in pieno una macchina di passaggio. Bastava farsi le due rampe di scale che dividevano la terrazza dalla strada per tornare a giocare come se nulla fosse successo. Era più complicato, invece, quando la palla cadeva dal lato opposto: finiva sulle tegole di una casa sottostante sfitta. Il problema era che non potevamo recuperarla: per continuare a giocare occorreva farne subito un’altra. Dall’alto, però, potevamo ammirare lo spettacolo: sulle tegole di quella casa erano parcheggiate non meno di una cinquantina di speciali palle di carta. Ogni tanto il proprietario era costretto a chiamare qualcuno perché le togliesse. Gli incidenti erano all’ordine del giorno: a volte poteva succedere che invece della palla su quelle tegole finisse una scarpa. In quel caso ci toccava cambiare sport e improvvisarci alpinisti, oppure cambiare scarpe o sperare che mamma, come successe una volta, arrivasse dal mercato con un paio di scarpe nuove, proprio cinque minuti dopo che la mia scarpa destra era finita sulle tegole della casa sottostante. Grazie a quell’allenamento intensivo nelle partite a calcio eravamo quasi imbattibili: ci riusciva di sconfiggere anche ragazzi ben più grandi di noi. Allora non esistevano i campi di calcetto: credo, anzi, che quello sport, non fosse ancora stato inventato. Giocavano nelle piazze o negli spiazzi grandi: per fortuna in quel quartiere non mancavano. Non sognavamo di diventare calciatori: ci bastava divertirci, stare insieme, fare ciò che ci piaceva. La terrazza non era solo il nostro campo d’allenamento per il calcio: all’occorrenza diventava una pista d’atletica leggera, una pedana di salto in alto, con un cestino della biancheria appeso ad un gancio diventava pure un terreno adatto per il basket. Forse abbiamo inventato anche il karaoke: per coinvolgere le nostre due piccole indiane organizzavamo anche delle gare di canto e di recitazione. Lontano da quel regno incantato tutto era più difficile: ciò che avevamo intorno era più un girone infernale che una proiezione del paradiso in terra. Andare al cinema, ad esempio, era una vera e propria impresa: nella sala più vicina ed economica, venivano proiettati due film al giorno. Uno comico, l’altro d’azione: Franco e Ciccio, Lando Buzzanca per la prima categoria, un western, un film di kung fu, per la seconda. Piccoli bulli, delinquenti in calzoni corti, erano tra i più assidui frequentatori della sala: se qualcuno dietro di noi poggiava i piedi sul nostro sedile, ci toccava star zitti e far finta di niente, se volevamo portare a casa la pelle. Molti di quei ragazzi, probabilmente, sono stati assidui frequentatori delle patrie galere o hanno già raggiunto un nuovo girone infernale, dopo quello frequentato su questo lato dell’universo. Il nostro regno degli Elfi e degli Gnomi, però, era ad orologeria: finita l’estate o le vacanze di Natale, ci toccava smontar tutto e rimandare il proseguimento alla puntata successiva. C’era il Collegio ad attenderci: roba da racconti di Dickens, non da educande svizzere. Una casa sfitta con le tegole coperte da palle di carta: se c’è un’immagine che identifica la mia adolescenza e quella degli altri quattro piccoli indiani che l’hanno condivisa con me, è proprio questa.

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